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Ieri sera sono andato a vedere (uso di proposito questo verbo, capirete dopo perché) il concerto del duo formato da Ryuichi Sakamoto (pianoforte) e Alva Noto – al secolo Carsten Nicolai (video e strumenti elettronici). Ero molto curioso e ben disposto verso un tipo di commistione che mi attrae moltissimo nelle sue potenzialità espressive. Poi Sakamoto è un personaggio della scena musicale globale da cui ci si può aspettare di tutto, e dunque capirete le ragioni della mia curiosità. Il piccolo teatro ticinese (in verità neanche troppo gremito) si è andato affollando di un pubblico di over-30, molto (troppo?) composti e forse fin troppo ben disposti verso lo spettacolo che – lo dico subito – è stato davvero poverino.

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Non mi riferisco al dispiegamento tecnologico, discreto quanto pervasivo, quanto alla resa complessiva di quello che nel programma di sala veniva presentata come “folgorante performance”, nonché “nuova sinergia tra pianoforte acustico e musica elettronica”.
In pratica si è trattato di qualcosa che nei primi minuti sembrava potesse arrivare chissà dove, ma che invece, per l’intero svolgimento del concerto, ha offerto il medesimo cliche: il pianoforte a occupare, con tessiture minimaliste, la parte media dello spettro audio; agli estremi subgrave e acutissimo gli interventi (a tratti davvero fastidiosi) dell’elettronica.

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Già, l’elettronica. Forse il termine è usato un po’ a sproposito. Io immaginavo di poter sentire degli interventi molto più creativi e soprattutto meno monocordi. Invece imperava un trito 4/4 e ciò che nelle intenzioni sarebbe dovuto essere dirompente era il timbro.
Se penso che solo pochi anni fa gran parte di questo genere di suoni (un mix di disturbi impulsivi, fasce di rumore continuo, pulsazioni subsoniche, microscopici loop tipici del genere electronica) sarebbe entrato nel novero delle componenti sonore da cercare di eliminare, nei difetti… Invece a quanto pare sono adesso il massimo del trendy, simbolo malato di una società post-post-moderna, ormai avvezza a qualsiasi emozione.
Ecco cosa davvero non mi ha convinto. Malgrado io stesso vagheggi sempre la possibilità concreta di questa sinergia tra il suono vivo di una tavola armonica vibrante e il suo alter ego sintetico, ancora una volta sono i fatti a smentirmi. Non ci siamo ancora. Non è questa la strada giusta. Invece che compenetrarsi, questi due mondi ieri sera sono andati in collisione frontale. Morta sul colpo, la Musica.

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Accennavo all’inizio al setup tecnico.
Sulla sinistra il pianoforte: un gran coda Yamaha midizzato e accuratamente microfonato (3 microfoni a condensatore e uno a zona di pressione sulla tavola armonica) – il suono era molto bello e rotondo. A destra la postazione tecnologica: due powerbook ad occuparsi presumibilmente l’uno dell’elaborazione video (che era ribaltata su un enorme schermo lcd sul fondale del palco) e l’altro dei campionamenti in tempo reale e dell’invio di contributi audio preregistrati. Potrebbero aver usato programmi come Max della Cycling74 e/o Live della Ableton, applicazioni usuali per questo genere di performance. Davanti ai powerbook due minuscole superfici di controllo che non ho ancora ben identificato (anzi, se qualcuno sa di che si tratta batta un colpo…)
Il materiale musicale (come detto davvero minimalista) richiedeva solo pochissimi punti di sincrono, e Sakamoto ha indossato furtivamente una minuscola cuffietta (evidentemente per sincronizzarsi ad un click) in un solo momento del concerto.

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Davvero suggestive le immagini astratte che venivano visualizzate in tempo reale: ora in stretto sincrono con gli impulsi midi provenienti dal pianoforte (ad ogni cambio di nota una distinta figura sullo schermo); ora fasce visive in corrispondenza alle fasce sonore, ora entrambe le cose assieme.
Il concerto (1 ora e mezzo circa) ha avuto termine con due bis, le cose più belle dell’intera serata: una specie di fugato del pianoforte, campionato in tempo reale e ributtato fuori dal computer; e una versione elaborata e inquinata dall’elettronica del tormentone di Sakamoto, il famosissimo “Merry Christmas Mr. Lawrence” che tanta fortuna ha tributato al compositore giapponese.
Pubblico condiscendente e plaudente – e questo mi fa tristezza. Forse sono io a non aver capito niente. Ma non credo davvero di essere stato l’unico a chiedersi dove fosse finita la poesia di album come Beauty o la bellezza degli omaggi a Jobim in Casa e A Day in New York. Una cosa è certa però, e bisogna darne atto a questo artista: la poliedricità degli interessi e delle attività (compositore, attore, artista multimediale, etc.) rimangono fuori dal comune.