Avevo 15 anni nel ’77, quando uscì il cofanetto con le ultime Sonate di Beethoven interpretate da Maurizio Pollini. La mia insegnante mi spinse ad ascoltarle: quei dischi mi accompagnano da allora.

Ho letto tanto in questi giorni, del Maestro. Mi sono tornati alla mente ricordi dei miei primi anni a Milano: l’ascolto in soffitta di vecchi 78 giri di Arturo Benedetti Michelangeli; la Sesta di Prokofiev di Pogorelich al Teatro alla Scala nel 1983; e ancora, più di un concerto di Pollini alla Scala dove, grazie a Paolo Grassi (e poi a Silvestro Severgnini) per due lire si potevano comprare i biglietti dei “Concerti per lavoratori e studenti”.


Oltre a farmi trasalire, quelle esperienze sono state un salutare bagno di realtà. Mi hanno fatto capire definitivamente che se volevo vivere di musica avrei non solo dovuto lavorare sodo, ma che malgrado le migliori intenzioni avrei potuto aspirare al massimo a diventare un onesto professionista.


Il bel documentario di Bruno Monsaingeon, nel piano sequenza iniziale, ci avvicina all’uomo e al suo mondo. Lui non mostra alcun vezzo, e nel racconto tutto è coerente: le scelte, il rigore, perfino l’idea di voler cambiare il mondo.
Nel lascito di Pollini rimarrà scolpito che il testo musicale deve emergere come necessità e l’ego sparire. Ma ciò che me lo fa più amare è che non ha avuto timore di mostrarsi fragile.