Kormákur racconta il legame tra amore e perdita, costruendo un film che attraversa epoche e continenti: dall’Islanda a Londra, fino al Giappone. La sua regia fatta di flashback e cambi di ambientazione amplifica il senso di nostalgia e il peso del passato.


L’intreccio si sviluppa attorno a Kristofér, un uomo segnato dal tempo e dal rimpianto, interpretato magistralmente da Egill Ólafsson. La storia d’amore tra il giovane Kristofér (interpretato dal figlio del regista) e Miko, scandita da riferimenti alla cucina e la tradizione giapponese, gli haiku e l’iconico omaggio a John Lennon e Yoko Ono, è delicata e intensa. Il nodo centrale del film – la separazione dei due amanti e il successivo svelamento della verità legata alla tragedia di Hiroshima – potrebbe risultare forzato, ma Kormákur riesce a mantenere l’equilibrio emotivo senza scadere nel melodramma.


La sceneggiatura, tratta dal romanzo Sotto la pioggia gentile di Ólafur Jóhann Ólafsson, affronta temi profondi: la memoria come rifugio e condanna, il rapporto tra genitori e figli, la malattia degenerativa che erode il presente e il bisogno di chiudere i conti in sospeso prima che sia troppo tardi. La pandemia si insinua nella narrazione come un ulteriore ostacolo, un simbolo della fragilità umana e della distanza imposta non solo dalle circostanze, ma anche dalle scelte personali.


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